martedì 12 dicembre 2017

Queering Guidelines. Un esercizio (discretamente ideologico) di analisi del testo


di Lorenzo Mari

Redatte da un tavolo tecnico formato da docenti universitari di varia afferenza disciplinare e firmate da Valeria Fedeli il 27 ottobre 2017, le Linee Guida Nazionali del MIUR dal titolo Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione si presentano come un testo che dev’essere interpretato e messo in atto nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Si tratta di una misura che intende specificare e integrare la legge 107 del 2015 (conosciuta, a livello di dibattito politico, come “riforma della buona scuola”, o #buonascuola) al comma 16 dell’articolo 1.
Com’è logico e prevedibile, l’interpretazione di tali Linee Guida rimanda ad un’operazione previa di analisi del testo. Esternamente al mondo della scuola, l’interpretazione entusiastica dei gruppi No Gender ha posto l’accento sulla definitiva estromissione della pericolosa “ideologia gender” dalle scuole italiane, concentrandosi su una parte del documento, contenuta nella premessa (pp. 3-4).
Tuttavia, è possibile un’interpretazione diversa, sia per contenuti che per ampiezza, che può mettere in luce la complessiva contraddittorietà di queste Linee Guida, predisponendo a un diverso esito pragmatico, da misurarsi poi a livello culturale e politico.

1.     Titolo

In questo esercizio di analisi, si può partire dal titolo stesso del documento, che è insieme coerente e in forte contrasto con il testo che segue.
Educare al rispetto: l’enfasi su questa indicazione valoriale è variamente ripetuta all’interno del testo, ma entra in contraddizione con la citazione delle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (DM del 16 novembre 2012, n. 254), dalle quali si estrapola quanto segue:

…non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti nella loro pura e semplice autonomia. Bisogna, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere (p. 3).

Rispetto o interazione-integrazione, dunque? Questione che non pare affatto di lana caprina, davanti al disconoscimento quotidiano del valore del rispetto nelle classi, per così dire, ‘reali’. Eppure: basta una promozione del rispetto? Si può concentrare l’attenzione sul rispetto conservativo delle differenze, come poi il resto delle Linee Guida continuerà a sottolineare, o non si potrà forse avviare una concezione dinamica, processuale e trasformativa di tale relazione? Non è forse l’interazione-integrazione uno snodo cruciale per quella antropologia relazionale evocata a p. 5?
Sia come sia, la coesione del testo inizia a scricchiolare.
Per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione: di questi obiettivi, il testo si occupa più che altro dei primi due, mentre il terzo resta evocato in modo generico. Nelle Linee Guida, infatti, ricorre con grande frequenza l’espressione “ogni forma di discriminazione”, con alcune varianti sinonimiche; solo in alcuni casi, viene specificato che si può trattare di “discriminazione contro le donne” o di “discriminazione di genere” (pp. 10, 11, 13).
Per contro, non vengono mai nominate le discriminazioni a carattere omofobico, lesbofobico e transfobico, cui si accenna in modo piuttosto indiretto e passeggero a p. 13:

Se la discriminazione di genere appare quale elemento strutturale e trasversale ad ogni realtà sociale, occorre tuttavia considerare gli altri fattori di discriminazione quali la disabilità, l’etnia, la religione, le convinzioni personali, l’orientamento sessuale, che possono anche presentarsi in combinazione dando origine alle cosiddette “discriminazioni multiple”. (corsivo aggiunto)

Ne consegue che il “rispetto” evocato dal titolo non si collega mai in modo esplicito al contrasto di forme di discriminazione specifiche eppure largamente presenti, radicate e violentemente attive nel nostro Paese.
Da ultimo, si può notare come l’anti-climax “sessi/genere/forme di discriminazione” contribuisca ad oscurare ulteriormente gli orientamenti sessuali che non siano immediatamente riconducibili ad un quadro etero-normativo, indicando la necessità di un’azione a carattere preventivo (contro la “discriminazione”) e non costruttivo. Questo punto riguarda anche il “genere”, per quando concerne, in particolare, l’uso dell’espressione “violenza di genere” (cui è dedicata una sottosezione del documento): quantitativamente seconda solo all’uso del “genere” in senso grammaticale, questa occorrenza è al tempo stesso molto più enfatizzata delle espressioni relative alle differenze o all’uguaglianza di genere (una o due occorrenze). Supera di molto anche i riferimenti al “genere” in sé, che pure fanno capolino un paio di volte in un’accezione simile a quella di gender, senza che ciò crei problema in un testo peraltro contrario a ciò che si definisce “ideologia” e/o alla “teoria” gender.
Al “genere”, dunque, si attribuisce un’accezione più negativa che positiva, accostando indirettamente la condizione della soggettività femminile a quella della vittima e, in mancanza di alternative che non siano di carattere preventivo, congelandola simbolicamente in questo status.
Fin qui, soltanto il titolo.

2.     Premessa: Genere o gender? Teoria, ideologia o studies?

Nella “Premessa” delle Linee Guida (p. 3) si recepiscono varie indicazioni normative, tra le quali spicca la circolare del 15 settembre 2015, al centro, come si  visto, dell’attenzione No Gender. In essa, infatti, si stabilisce che la finalità della Legge 107 “non è, dunque, quella di promuovere pensieri o azioni ispirati ad ideologie di qualsivoglia natura”. Il riferimento alla definizione di “ideologia gender”, frequentemente usata nel dibattito pubblico italiano, viene ulteriormente enfatizzato da altri due passaggi della circolare (p. 4): “Si ribadisce, quindi, che tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo né le “ideologie gender” né l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo”. E ancora, ci si propone di dare chiarimenti esaurienti e decisivi “riguardo a una presunta possibilità di inserimento all’interno dei Piani dell’Offerta Formativa delle scuole la cosiddetta “Teoria del Gender”, che troverebbe attuazione in pratiche e insegnamenti non riconducibili ai programmi previsti dagli attuali ordinamenti scolastici” (p. 4).
Così non è. Aderendo in toto a questa circolare del 2015, le Linee Guida incorrono in quello che è forse l’infortunio più rilevante del documento. Si mostra, infatti, di dare credito alle espressioni “ideologia gender” e “teoria gender”, altrimenti ricusabili, o discutibili, e per di più non si attua alcuna distinzione tra le due etichette. Ora, non tutte le teorie danno adito direttamente a costruzioni ideologiche, né tutte le ideologie possono essere ricondotte in modo univoco a costruzioni teoriche. Quando questo accade, vi è una notevole sottrazione di complessità, fenomeno che si può difficilmente accostare a chi definisce il gender come costrutto sociale e culturale, variabile nel tempo e secondo le circostanze materiali. Come si legge ad esempio in questo intervento Chiara Lalli, sarebbe più corretto, infatti, parlare di “relativismo gender”; d’altronde, “per alcuni è un insulto essere relativista”, continua la bioeticista “anche se questo rasenta l’insensatezza, soprattutto se ci ricordiamo che l’alternativa è l’imposizione e il dogmatismo”.
Introdurre qui un’alternativa secca e dicotomica tra dogmatismo biologista e relativismo del genere potrebbe creare confusione, dal momento che gli studi attorno al gender non negano, ad esempio, l’esistenza e la rilevanza delle determinazioni biologiche dell’essere umano (ma non ne fanno un orizzonte quotidiano e sempre ineludibile, come invece pretendono le Linee Guida, come si vedrà più avanti). Resta, in ogni caso, l’infondatezza dell’equivalenza tra “teoria” e “ideologia gender”, ancor più marcata se ci si concentra sul secondo termine (mentre sul primo resta aperta la discussione, in molti contesti accademici e non).
“Ideologia gender” è un termine ricusato, tra gli altri, dall’Ordine degli Psicologi italiano tramite il comunicato stampa del 9 settembre 2015, dove si legge:

L’AIP ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.

Rasserenamento che evidentemente non ha avuto luogo, stando alle Linee Guida.
En passant, si può notare anche come il documento non sani il conflitto interpretativo aperto dal comunicato dell’Ordine degli Psicologi e che riguarda, con solidissime basi, tutti quei campi disciplinari che, effettivamente, i Gender, Queer, Gay, Lesbian e/o Trangender Studies hanno contribuito a sviluppare e rinnovare. Si sta forse sostenendo che questa produzione accademica e intellettuale, assai attiva in Italia (a fronte di una scarsa istituzionalizzazione, caso molto raro rispetto a ciò che accade fuori ai confini italiani), non ha alcuna rilevanza o non ne ha a livello didattico? In questo caso, perché?
Sembra venir meno il principio del costante travaso di saperi tra università e scuola, principio che invece continua ad essere applicato, e non potrebbe essere altrimenti, con l’inserimento della laurea come requisito fondamentale per la docenza, nonché con l’affidamento a un tavolo tecnico composto in prevalenza da docenti universitari della redazione delle presenti Linee Guida.
In ogni caso, se l’espressione “ideologia gender” non ha alcun fondamento, ciò non si deve soltanto alla posizione assunta dall’Ordine degli Psicologi o alla ricerca universitaria di riferimento. Oltre ad essere un’espressione intimamente contraddittoria, com’è già stato accennato, quella che si definisce come “ideologia gender” risulta essere di fatto presente nelle stesse Linee Guida, perché, al netto delle problematiche culturali e politiche legate alla traduzione, cos’è il “genere” che ricorre così spesso in questo documento se non un addomesticamento linguistico del gender?
Eppure, l’ideologia, o teoria, gender non deve entrare nelle scuole, si legge nelle Linee Guida, e la si accosta a “pratiche estranee al mondo educativo”. Dove sta allora il confine tra l’educazione che si promuove con queste Linee Guida e il bando del gender, nella sua forma presuntivamente teorica o ideologica, dalle scuole? Chi stabilisce tale discrimine, se deve esistere (e qui si crede di no), se le Linee Guida forniscono un quadro contraddittorio e dunque inapplicabile?
La “riforma della buona scuola” sembra dare una risposta inquietante, nella maggiore discrezionalità affidata ai dirigenti scolastici rispetto alla gestione del personale docente (con lo strumento della chiamata diretta, privo, al momento, di parametri condivisi e trasparenti, nonché di un’effettiva utilità amministrativa e qualitativa). E se la presenza, la bontà e la qualità dell’educazione di genere (che, proprio secondo parti delle Linee Guida, si continuerà a fare) fosse affidata alla scelta di un singolo individuo (scelta inevitabilmente arbitraria… e probabilmente non di rado ideologica)?

3.     Differenza, differenze, différance

Più che alla concezione del genere come socialmente e culturalmente costruito, il testo sembra ricorrere in modo insistente alla nozione di “differenza” (27 occorrenze), oscillando tra un’interpretazione nettamente essenzialista del termine e una più sfumata deriva costruttivista (in contraddizione, dunque, con la censura dell’etichetta gender). In assenza di una qualunque forma di articolazione discorsiva, infatti, nelle Linee Guida sono presenti l’equivalenza tra “identità” e l’”essere” della persona (p. 7) e la “dialettica tra identità e diversità” come “la più compiuta affermazione dell’individuo” (p. 13); inoltre, vi trovano spazio, sempre senza soluzione di continuità né connessione logico-discorsiva, sia la “differenza sessuale” che la “differenza di genere”. 
È la prima accezione a prevalere, determinando le seguenti riflessioni:

Nascere uomini o donne crea appartenenze forti, è la pietra angolare dell’identità, informa di sé l’intero orizzonte esistenziale: è la prima condizione con cui ogni individuo si pone, e ne riceve opportunità e risorse ma anche limiti. Tutti gli aspetti della vita quotidiana ne sono connotati. (p. 4).

E ancora: “…nell’incontro tra differenze, che dà origine alla vita…” (p. 6).
Passaggio chiave, quest’ultimo, per iniziare a delineare la matrice – indubbiamente, come vuole l’espressione e come indica la lettura del testo, “ideologica” – delle Linee Guida: se si considera l’incontro di differenze come origine della vita, si rinvia alla concezione religiosa, e cattolica, della differenza sessuale come complementarietà biologica nell’esercizio della riproduzione della vita (con la notoria esclusione dalla biologia, ergo anche dalla “natura”, di chi non abbia capacità procreative o non appartenga agli orientamenti sessuali ritenuti normativi).
Pure, l’espressione è contenuta all’interno di un periodo che, in linea teorica, segue una diversa ispirazione:

Per tutti questi motivi la prima differenza che sperimentiamo nella nostra vita è stata di solito trasmessa come gerarchica e tale diventa il modello che profondamente interiorizziamo, differenza come disuguaglianza: se c’è una differenza, allora qualcuno è migliore e qualcuno è peggiore e, soprattutto, c’è una dimensione di potere dell’uno sull’altro. Dalla differenza come disuguaglianza gerarchica discende la relazione nella forma del dominio, che produce discriminazioni e che in italiano (e in altre lingue) risulta simboleggiata e insieme costruita anche dalla pratica linguistica.
Se invece rileggiamo la nostra esperienza con occhi più aperti e critici scopriamo che non c’è alcuna ragione per cui nell’incontro tra differenze, che dà origine alla vita, ci debba essere una gerarchia: non esiste alcun motivo per rinunciare alla ricchezza garantita dalla piena espressione di donne e uomini nella totalità della loro umanità, già nell’accudimento della vita ai suoi inizi. (pp. 5-6)

Ora, per poter affermare che la differenza nasconde un principio gerarchico, il riferimento diretto o indiretto sembra essere alle pratiche epistemologiche di matrice decostruzionista, ossia all’individuazione di una “differenza della differenza” o “differimento della differenza” (différance, nei termini usati dal filosofo franco-algerino Jacques Derrida, in luogo del francese corrente différence, rispetto al quale si mantiene omofonia, ma si devia a livello grafico) che mina le basi di ogni procedimento rigidamente dicotomico.
È differendo e decostruendo ogni tipo di binarismo (di genere, in questo caso) che si può dimostrare come la differenza tra due poli sia stabilita sempre a favore di uno di questi, rafforzandone il potere. Potere che, proseguendo nella direzione contraddittoria di queste Linee Guida, viene esplicitato così:

Secoli di patriarcato hanno rappresentato le donne come naturalmente subordinate agli uomini, avvalendosi di dicotomie come quelle di mente/corpo, soggetto/oggetto, logica/istinto, ragione/sentimento, attività/passività, pubblico/privato e assegnando agli uomini le prime caratteristiche, alle donne le seconde. (p. 5).

Come ci si propone di risolvere, almeno in apparenza, questa contraddizione all’interno delle Linee Guida? In primo luogo, si tralascia l’articolazione delle dicotomie appena citate con la differenza che invece è fondata sul sesso e/o sul genere (in sé dicotomica: uomo/donna, maschile/femminile); in seguito, si pone un accento di fatto esclusivo sull’aspetto della subordinazione. Tema sicuramente di grandissima importanza, ma che viene a creare, a livello logico, una frattura tra una “differenza” vera, buona e innocente e le “differenze” che recano con sé diseguaglianze sociali. Le Linee Guida cercano di sanare questa ennesima contraddizione segnalando che “la prima differenza che sperimentiamo nella vita è stata di solito trasmessa come gerarchica e tale diventa il modello che profondamente interiorizziamo, differenza come diseguaglianza” (p. 5). Si può notare come tale passaggio metterebbe in crisi l’idea di un orizzonte di vita legato all’identità sessuale (e/o di genere) esposto a p. 4, inserendovi sin da subito il modello gerarchico. Per uscire da questa impasse – probabilmente legata alla saldatura della già citata impostazione di area cattolica con le posizioni del femminismo differenzialista (movimento estremamente complesso, interessante e portatore di trasformazione socio-simbolica in molti contesti, ma non sempre di impatto efficace e lineare, come dimostra il presente compromesso, che ancora una volta si può dire “ideologico”) – si dovrà tornare a porre l’accento sulla differenza come diseguaglianza.
A quel punto: è sufficiente eliminare le diseguaglianze sociali (ancorché passo lunghissimo e spinta idealmente e materialmente necessaria) per tornare alla buona differenza, radicata che sia ora nelle determinazioni biologiche, ora in quelle del genere?
Basta “educare al rispetto” dell’autentica differenza per ottenere questo, secondo una pratica che, come si è visto, mantiene intatte la dicotomia sessuale o di genere, rischiando di mantenere inalterate anche le dicotomie di cui sopra?

4.     Il femminile e il maschile nel linguaggio (ma non al plurale)

Nella sezione dedicata a “Il femminile e il maschile nel linguaggio”, si riconosce fin da subito questo principio: “Un’altra forma di violenza simbolica è cancellare la differenza in nome di una presunta uguaglianza che è in realtà un adeguamento al modello maschile” (p. 7). Ne consegue che

nella pratica didattica si suggerisce quindi di verificare l’adeguatezza del linguaggio usato nei libri di testo di tutte le discipline non solo per quanto riguarda la presenza di eventuali stereotipi del maschile e del femminile, ma anche per quanto concerne l’uso del genere grammaticale, che costituisce uno strumento fondamentale per la rappresentazione della donna nel linguaggio. (p. 8)

Uno degli argomenti di fondo di questa sezione, infatti, è che un uso “femminile” o “neutro” di termini precedentemente declinati al maschile contravviene spesso alle regole grammaticali già date, impedendo così una comunicazione efficace.
Come per il valore del rispetto, si punta il dito su un’autentica emergenza, rispetto, stavolta, alla literacy delle classi ‘reali’. Dal punto di vista linguistico, inoltre, le argomentazioni sono solide, come nel caso dell’unico esempio direttamente citato, in nota (Cecilia Robustelli, “Genere, grammatica e grammatiche”, in La differenza insegna, a cura di Maria Serena Sapegno, Roma, Carocci, 2014, pp. 61-74). Citazione che, al tempo stesso, è sintomo di un lavoro accademico molto più ampio, che coinvolge vari gruppi di ricerca negli atenei italiani e porta a esiti talvolta analoghi, talvolta discordanti rispetto a quelli indicati.
In effetti, l’intenzione di ribadire la bontà e la necessità della grammatica italiana (un impianto normativo che non esclude la violenza simbolica di cui sopra, anzi ne consente l’attuazione) non sembra costituire una posizione di per sé soddisfacente, in particolare se corroborata da argomentazioni come questa: “Come è noto, infatti, la lingua italiana possiede solo il genere grammaticale maschile e quello femminile e non ha il genere neutro. Qualsiasi buona grammatica italiana ne chiarisce l’uso, la funzione e la distribuzione, e ad essa rimandiamo” (p. 8).
Certamente vero, ma il peso della lingua latina (dotata di genere neutro) è ancora rintracciabile nella lingua italiana, pur non costituendosi come genere a sé stante, e altre lingue di cui si prevede l’apprendimento a scuola presentano il genere neutro o configurazioni diversi dei generi grammaticali del maschile e del femminile rispetto alla lingua italiana. Queste riflessioni valgono a livello meta-linguistico, come segno di un’abilità che completa e rafforza la correttezza grammaticale e la comunicatività nell’uso della lingua. Le competenze di tipo meta-linguistico aiutano a delineare la storicità delle regole grammaticali, variabili nel tempo e nello spazio (ma non arbitrariamente e non a prescindere dai contesti pragmatici, come del resto si sottolinea correttamente nelle Linee Guida). Aiutano inoltre a riflettere sui fenomeni di discriminazione linguistica che la normatività linguistica continua a produrre, ad esempio con l’adozione del maschile plurale universale (ogni volta che la concordanza sia richiesta con almeno un elemento di genere maschile).

5.     Conclusioni (aperte)

L’analisi fin qui condotta sottolinea come le Linee Guida siano un testo fortemente contraddittorio, basato talvolta su argomentazioni incoerenti, e che produce un effetto di deriva rispetto alle proprie finalità pragmatiche e programmatiche. Se ne auspica dunque un ripensamento integrale, atto a evitare il rischio che il documento presti il fianco a quelle interpretazioni, univoche e unilaterali, che si concentrano esclusivamente sulle parti del testo più chiaramente definite.
Essendo caratterizzato da certa perentorietà, il bando di “ideologia” e “teoria gender” dalle scuole di ogni ordine e grado sembra essere una di queste parti. Tuttavia, si tratta di un’indicazione basata su una definizione scientificamente inconsistente (“ideologia gender”) e confusa con un’altra etichetta (“teoria gender”) sulla quale invece il dibattito accademico e intellettuale resta rigoroso, aperto e vivace.
Il rifiuto di “ideologia” e “teoria gender”, inoltre, deriva, in modo incongruente, da assunti che partono proprio dalle riflessioni sul genere/gender: non se ne può fare a meno, del resto, se i principi-cardine delle Linee Guide sono l’educazione al rispetto e la prevenzione della violenza di genere, nonché di tutte le forme di discriminazioni.
In questo senso, includendo quindi una qualche definizione di genere/gender, vanno tutte le indicazioni meritorie, e preziose, contenute nelle Linee Guida, delle quali si può dare qui un altro esempio:

Bambini e bambine, uomini e donne sono tra loro diversi e ciò rende l’esperienza umana molto ricca. Tuttavia molto spesso dalle bambine e dalle ragazze si aspettano comportamenti e inclinazioni che corrispondono a idee e immagini molto normative: devono essere gentili e sensibili, amare i giochi tranquilli, le faccende sentimentali, ed essere ossessionate dalla apparenza fisica e dallo sguardo degli altri. Secondo uno stereotipo diffuso non amerebbero le scienze e la matematica, lo sport e la competizione. Altrettanto rigide e opprimenti le aspettative sui bambini e sui ragazzi: non devono avere timori né sensibilità o dolcezza, è indispensabile che amino il calcio e ogni tipo di gara, devono accettare giochi violenti e sapersi difendere. L’imperativo “sii uomo” spesso non ha lasciato alcuno spazio ai gesti, alle parole e alle responsabilità della cura: maschio che non solo “non deve chiedere mai”, ma neppure ascoltare e rispondere alla domanda di relazione. (p. 6)

Tutto ciò che si propone in questo paragrafo, e che ha attinenza diretta con l’esperienza quotidiana dei discenti, non può essere avanzato se non attraverso un’analisi del gender quale quella fornita dai Gender Studies/Studi di genere, (terzo termine tra “ideologia” e “teoria”, che non viene quasi mai chiamato in causa, forse perché costringe a riflessioni più articolate di un semplice binarismo pro/no-gender).
Attinenza alle analisi dei Gender Studies/Studi di genere, avrebbe anche l’espressione “differenza di genere”, termine che, del resto, ha vita difficile in un testo dove la differenza è intesa prevalentemente in senso essenzialista: mancando un’articolazione discorsiva con l’espressione “differenza sessuale” e con tutte le altre dicotomie citate nelle Linee Guida, il proposito di decostruzione e di lotta alle diseguaglianze di genere trova un’attuazione monca, non essendo affrontato nella sua complessità.
Oltre alla già citata epistemologia decostruzionista, un ragionamento basato sulla decostruzione sulle “differenze” è stato proposto (e largamente accettato dal dibattito accademico e intellettuale, almeno fuori d’Italia) dai Queer Studies. Parzialmente e in debito di ulteriori precisazioni, obiezioni e riformulazioni, il punto di vista queer è stato adottato anche in questa lettura. Non si vede, infatti, perché tale produzione intellettuale non debba essere tenuta in debito conto (mentre si dà credito, in vario modo, al pensiero sociale cattolico, al femminismo differenzialista e all’antropologia relazionale: tradizioni di pensiero importantissime, ma che, nella prassi, dovrebbero avere uno statuto altrettanto “parziale” nelle direttive ministeriali).
A meno che non si delinei, come spesso accade, una confusione semantica anche tra gender e queer: una confusione di questo tipo spiega come nell’opposizione al gender serpeggi spesso, tra le altre motivazioni, il timore che una determinata educazione di genere possa “omosessualizzare” i discenti. Timore che, oltre a essere scientificamente del tutto infondato, manifesta una certa tendenza omo-, lesbo- e transfobica: si continua, infatti a fantasticare su tutti quegli orientamenti sessuali che non sono normativi e binari, ritenendoli capaci di manipolare – ideologicamente – chi non ne sia naturalmente convinto (o anche, seguendo le varie declinazioni di questa fantasia, di penetrare chi non è consenziente, di contagiare e patologizzare chi altrimenti godrebbe di salute, etc.).
Qualora ci si attenesse alla lettera di queste Linee Guida, dove omofobia, lesbofobia, o transfobia non sono nemmeno nominate, tale preoccupazione potrebbe essere rinsaldata, anziché riconosciuta, esplorata, criticata, superata.

Se ci si propone di “educare al rispetto”, questi ultimi passaggi (dal riconoscimento al superamento delle discriminazioni, nell’orizzonte di una promozione attiva e trasformativa della complessità sociale) sembrano essere teoricamente ineludibili, restando, nel nostro Paese, di estrema rilevanza e urgente attualità.

Nessun commento:

Posta un commento