di
Lorenzo Mari
Redatte
da un tavolo tecnico formato da docenti universitari di varia afferenza
disciplinare e firmate da Valeria Fedeli il 27 ottobre 2017, le Linee Guida
Nazionali del MIUR dal titolo Educare al rispetto:
per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte
le forme di discriminazione si presentano come un testo che dev’essere interpretato e
messo in atto nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Si tratta di una
misura che intende specificare e integrare la legge 107 del 2015 (conosciuta, a
livello di dibattito politico, come “riforma della buona scuola”, o #buonascuola) al comma 16 dell’articolo
1.
Com’è
logico e prevedibile, l’interpretazione di tali Linee Guida rimanda ad
un’operazione previa di analisi del testo. Esternamente al mondo della scuola, l’interpretazione
entusiastica dei gruppi No Gender ha posto l’accento sulla definitiva
estromissione della pericolosa “ideologia gender” dalle scuole italiane,
concentrandosi su una parte del documento, contenuta nella premessa (pp. 3-4).
Tuttavia,
è possibile un’interpretazione diversa, sia per contenuti che per ampiezza, che
può mettere in luce la complessiva contraddittorietà di queste Linee Guida, predisponendo
a un diverso esito pragmatico, da misurarsi poi a livello culturale e politico.
1.
Titolo
In
questo esercizio di analisi, si può partire dal titolo stesso del documento,
che è insieme coerente e in forte contrasto con il testo che segue.
Educare al rispetto: l’enfasi su questa indicazione valoriale è variamente ripetuta
all’interno del testo, ma entra in contraddizione con la citazione delle Indicazioni Nazionali
per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (DM del 16 novembre
2012, n. 254), dalle quali si estrapola quanto segue:
…non
basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti nella loro pura e
semplice autonomia. Bisogna, invece, sostenere attivamente la loro interazione
e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre
culture in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose,
i ruoli familiari, le differenze di genere (p. 3).
Rispetto
o interazione-integrazione, dunque? Questione che non pare affatto di lana
caprina, davanti al disconoscimento quotidiano del valore del rispetto nelle
classi, per così dire, ‘reali’. Eppure: basta una promozione del rispetto? Si
può concentrare l’attenzione sul rispetto conservativo delle differenze, come
poi il resto delle Linee Guida continuerà a sottolineare, o non si potrà forse
avviare una concezione dinamica, processuale e trasformativa di tale relazione?
Non è forse l’interazione-integrazione uno snodo cruciale per quella
antropologia relazionale evocata a p. 5?
Sia
come sia, la coesione del testo inizia a scricchiolare.
Per la parità tra i
sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione: di questi obiettivi,
il testo si occupa più che altro dei primi due, mentre il terzo resta evocato
in modo generico. Nelle Linee Guida, infatti, ricorre con grande frequenza
l’espressione “ogni forma di discriminazione”, con alcune varianti sinonimiche;
solo in alcuni casi, viene specificato che si può trattare di “discriminazione
contro le donne” o di “discriminazione di genere” (pp. 10, 11, 13).
Per
contro, non vengono mai nominate le discriminazioni a carattere omofobico,
lesbofobico e transfobico, cui si accenna in modo piuttosto indiretto e
passeggero a p. 13:
Se la
discriminazione di genere appare quale elemento strutturale e trasversale ad
ogni realtà sociale, occorre tuttavia considerare gli altri fattori di
discriminazione quali la disabilità, l’etnia, la religione, le convinzioni
personali, l’orientamento sessuale,
che possono anche presentarsi in combinazione dando origine alle cosiddette
“discriminazioni multiple”. (corsivo aggiunto)
Ne
consegue che il “rispetto” evocato dal titolo non si collega mai in modo
esplicito al contrasto di forme di discriminazione specifiche eppure largamente
presenti, radicate e violentemente attive nel nostro Paese.
Da
ultimo, si può notare come l’anti-climax “sessi/genere/forme di
discriminazione” contribuisca ad oscurare ulteriormente gli orientamenti
sessuali che non siano immediatamente riconducibili ad un quadro etero-normativo,
indicando la necessità di un’azione a carattere preventivo (contro la “discriminazione”)
e non costruttivo. Questo punto riguarda anche il “genere”, per quando
concerne, in particolare, l’uso dell’espressione “violenza di genere” (cui è
dedicata una sottosezione del documento): quantitativamente seconda solo
all’uso del “genere” in senso grammaticale, questa occorrenza è al tempo stesso
molto più enfatizzata delle espressioni relative alle differenze o
all’uguaglianza di genere (una o due occorrenze). Supera di molto anche i
riferimenti al “genere” in sé, che pure fanno capolino un paio di volte in
un’accezione simile a quella di gender,
senza che ciò crei problema in un testo peraltro contrario a ciò che si
definisce “ideologia” e/o alla “teoria” gender.
Al
“genere”, dunque, si attribuisce un’accezione più negativa che positiva,
accostando indirettamente la condizione della soggettività femminile a quella
della vittima e, in mancanza di alternative che non siano di carattere
preventivo, congelandola simbolicamente in questo status.
Fin
qui, soltanto il titolo.
2.
Premessa: Genere o gender? Teoria, ideologia o studies?
Nella
“Premessa” delle Linee Guida (p. 3) si recepiscono varie indicazioni normative,
tra le quali spicca la circolare del 15
settembre 2015,
al centro, come si visto,
dell’attenzione No Gender. In essa, infatti, si stabilisce che la finalità
della Legge 107 “non è, dunque, quella di promuovere pensieri o azioni ispirati
ad ideologie di qualsivoglia natura”. Il riferimento alla definizione di
“ideologia gender”, frequentemente usata nel dibattito pubblico italiano, viene
ulteriormente enfatizzato da altri due passaggi della circolare (p. 4): “Si
ribadisce, quindi, che tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere
non rientrano in nessun modo né le “ideologie gender” né l’insegnamento di
pratiche estranee al mondo educativo”. E ancora, ci si propone di dare
chiarimenti esaurienti e decisivi “riguardo a una presunta possibilità di
inserimento all’interno dei Piani dell’Offerta Formativa delle scuole la
cosiddetta “Teoria del Gender”, che troverebbe attuazione in pratiche e
insegnamenti non riconducibili ai programmi previsti dagli attuali ordinamenti
scolastici” (p. 4).
Così
non è. Aderendo in toto a questa circolare del 2015, le Linee Guida incorrono
in quello che è forse l’infortunio più rilevante del documento. Si mostra,
infatti, di dare credito alle espressioni “ideologia gender” e “teoria gender”,
altrimenti ricusabili, o discutibili, e per di più non si attua alcuna distinzione
tra le due etichette. Ora, non tutte le teorie danno adito direttamente a
costruzioni ideologiche, né tutte le ideologie possono essere ricondotte in
modo univoco a costruzioni teoriche. Quando questo accade, vi è una notevole
sottrazione di complessità, fenomeno che si può difficilmente accostare a chi
definisce il gender come costrutto
sociale e culturale, variabile nel tempo e secondo le circostanze materiali.
Come si legge ad esempio in questo intervento Chiara Lalli, sarebbe
più corretto, infatti, parlare di “relativismo gender”; d’altronde, “per alcuni
è un insulto essere relativista”, continua la bioeticista “anche se questo rasenta
l’insensatezza, soprattutto se ci ricordiamo che l’alternativa è l’imposizione
e il dogmatismo”.
Introdurre
qui un’alternativa secca e dicotomica tra dogmatismo biologista e relativismo
del genere potrebbe creare confusione, dal momento che gli studi attorno al gender non negano, ad esempio,
l’esistenza e la rilevanza delle determinazioni biologiche dell’essere umano
(ma non ne fanno un orizzonte quotidiano e sempre ineludibile, come invece
pretendono le Linee Guida, come si vedrà più avanti). Resta, in ogni caso,
l’infondatezza dell’equivalenza tra “teoria” e “ideologia gender”, ancor più
marcata se ci si concentra sul secondo termine (mentre sul primo resta aperta
la discussione, in molti contesti accademici e non).
“Ideologia
gender” è un termine ricusato, tra gli altri, dall’Ordine degli Psicologi
italiano tramite il comunicato stampa del
9 settembre 2015,
dove si legge:
L’AIP
ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi
della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole
italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia
del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti
come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno
contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande
rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia,
all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a
livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati
sul genere e l’orientamento sessuale.
Rasserenamento
che evidentemente non ha avuto luogo, stando alle Linee Guida.
En passant, si può notare anche
come il documento non sani il conflitto interpretativo aperto dal comunicato
dell’Ordine degli Psicologi e che riguarda, con solidissime basi, tutti quei
campi disciplinari che, effettivamente, i Gender, Queer, Gay, Lesbian e/o
Trangender Studies hanno contribuito a sviluppare e rinnovare. Si sta forse
sostenendo che questa produzione accademica e intellettuale, assai attiva in
Italia (a fronte di una scarsa istituzionalizzazione, caso molto raro rispetto
a ciò che accade fuori ai confini italiani), non ha alcuna rilevanza o non ne
ha a livello didattico? In questo caso, perché?
Sembra
venir meno il principio del costante travaso di saperi tra università e scuola,
principio che invece continua ad essere applicato, e non potrebbe essere
altrimenti, con l’inserimento della laurea come requisito fondamentale per la
docenza, nonché con l’affidamento a un tavolo tecnico composto in prevalenza da
docenti universitari della redazione delle presenti Linee Guida.
In
ogni caso, se l’espressione “ideologia gender” non ha alcun fondamento, ciò non
si deve soltanto alla posizione assunta dall’Ordine degli Psicologi o alla
ricerca universitaria di riferimento. Oltre ad essere un’espressione
intimamente contraddittoria, com’è già stato accennato, quella che si definisce
come “ideologia gender” risulta essere di fatto presente nelle stesse Linee
Guida, perché, al netto delle problematiche culturali e politiche legate alla
traduzione, cos’è il “genere” che ricorre così spesso in questo documento se
non un addomesticamento
linguistico
del gender?
Eppure,
l’ideologia, o teoria, gender non
deve entrare nelle scuole, si legge nelle Linee Guida, e la si accosta a “pratiche
estranee al mondo educativo”. Dove sta allora il confine tra l’educazione che
si promuove con queste Linee Guida e il bando del gender, nella sua forma presuntivamente teorica o ideologica, dalle
scuole? Chi stabilisce tale discrimine, se deve esistere (e qui si crede di
no), se le Linee Guida forniscono un quadro contraddittorio e dunque
inapplicabile?
La
“riforma della buona scuola” sembra dare una risposta inquietante, nella
maggiore discrezionalità affidata ai dirigenti scolastici rispetto alla gestione
del personale docente (con lo strumento della chiamata diretta, privo, al
momento, di parametri condivisi e trasparenti, nonché di un’effettiva utilità
amministrativa e qualitativa). E se la presenza, la bontà e la qualità
dell’educazione di genere (che, proprio secondo parti delle Linee Guida, si
continuerà a fare) fosse affidata alla scelta di un singolo individuo (scelta
inevitabilmente arbitraria… e probabilmente non di rado ideologica)?
3.
Differenza, differenze,
différance
Più
che alla concezione del genere come socialmente e culturalmente costruito, il
testo sembra ricorrere in modo insistente alla nozione di “differenza” (27
occorrenze), oscillando tra un’interpretazione nettamente essenzialista del
termine e una più sfumata deriva costruttivista (in contraddizione, dunque, con
la censura dell’etichetta gender). In
assenza di una qualunque forma di articolazione discorsiva, infatti, nelle
Linee Guida sono presenti l’equivalenza tra “identità” e l’”essere” della
persona (p. 7) e la “dialettica tra identità e diversità” come “la più compiuta
affermazione dell’individuo” (p. 13); inoltre, vi trovano spazio, sempre senza
soluzione di continuità né connessione logico-discorsiva, sia la “differenza
sessuale” che la “differenza di genere”.
È
la prima accezione a prevalere, determinando le seguenti riflessioni:
Nascere
uomini o donne crea appartenenze forti, è la pietra angolare dell’identità,
informa di sé l’intero orizzonte esistenziale: è la prima condizione con cui
ogni individuo si pone, e ne riceve opportunità e risorse ma anche limiti.
Tutti gli aspetti della vita quotidiana ne sono connotati. (p. 4).
E
ancora: “…nell’incontro tra differenze, che dà origine alla vita…” (p. 6).
Passaggio
chiave, quest’ultimo, per iniziare a delineare la matrice – indubbiamente, come
vuole l’espressione e come indica la lettura del testo, “ideologica” – delle
Linee Guida: se si considera l’incontro di differenze come origine della vita,
si rinvia alla concezione religiosa, e cattolica, della differenza sessuale
come complementarietà biologica nell’esercizio della riproduzione della vita
(con la notoria esclusione dalla biologia, ergo anche dalla “natura”, di chi
non abbia capacità procreative o non appartenga agli orientamenti sessuali ritenuti
normativi).
Pure,
l’espressione è contenuta all’interno di un periodo che, in linea teorica,
segue una diversa ispirazione:
Per
tutti questi motivi la prima differenza che sperimentiamo nella nostra vita è
stata di solito trasmessa come gerarchica e tale diventa il modello che
profondamente interiorizziamo, differenza come disuguaglianza: se c’è una
differenza, allora qualcuno è migliore e qualcuno è peggiore e, soprattutto,
c’è una dimensione di potere dell’uno sull’altro. Dalla differenza come
disuguaglianza gerarchica discende la relazione nella forma del dominio, che
produce discriminazioni e che in italiano (e in altre lingue) risulta
simboleggiata e insieme costruita anche dalla pratica linguistica.
Se
invece rileggiamo la nostra esperienza con occhi più aperti e critici scopriamo
che non c’è alcuna ragione per cui nell’incontro tra differenze, che dà origine
alla vita, ci debba essere una gerarchia: non esiste alcun motivo per
rinunciare alla ricchezza garantita dalla piena espressione di donne e uomini
nella totalità della loro umanità, già nell’accudimento della vita ai suoi
inizi. (pp. 5-6)
Ora,
per poter affermare che la differenza nasconde un principio gerarchico, il
riferimento diretto o indiretto sembra essere alle pratiche epistemologiche di
matrice decostruzionista, ossia all’individuazione di una “differenza della
differenza” o “differimento della differenza” (différance, nei termini usati dal filosofo franco-algerino Jacques
Derrida, in luogo del francese corrente différence,
rispetto al quale si mantiene omofonia, ma si devia a livello grafico) che mina
le basi di ogni procedimento rigidamente dicotomico.
È
differendo e decostruendo ogni tipo di binarismo (di genere, in questo caso)
che si può dimostrare come la differenza tra due poli sia stabilita sempre a
favore di uno di questi, rafforzandone il potere. Potere che, proseguendo nella
direzione contraddittoria di queste Linee Guida, viene esplicitato così:
Secoli
di patriarcato hanno rappresentato le donne come naturalmente subordinate agli
uomini, avvalendosi di dicotomie come quelle di mente/corpo, soggetto/oggetto,
logica/istinto, ragione/sentimento, attività/passività, pubblico/privato e
assegnando agli uomini le prime caratteristiche, alle donne le seconde. (p. 5).
Come
ci si propone di risolvere, almeno in apparenza, questa contraddizione
all’interno delle Linee Guida? In primo luogo, si tralascia l’articolazione
delle dicotomie appena citate con la differenza che invece è fondata sul sesso
e/o sul genere (in sé dicotomica: uomo/donna, maschile/femminile); in seguito,
si pone un accento di fatto esclusivo sull’aspetto della subordinazione. Tema
sicuramente di grandissima importanza, ma che viene a creare, a livello logico,
una frattura tra una “differenza” vera, buona e innocente e le “differenze” che
recano con sé diseguaglianze sociali. Le Linee Guida cercano di sanare questa
ennesima contraddizione segnalando che “la prima differenza che sperimentiamo
nella vita è stata di solito trasmessa come gerarchica e tale diventa il
modello che profondamente interiorizziamo, differenza come diseguaglianza” (p.
5). Si può notare come tale passaggio metterebbe in crisi l’idea di un
orizzonte di vita legato all’identità sessuale (e/o di genere) esposto a p. 4,
inserendovi sin da subito il modello gerarchico. Per uscire da questa impasse –
probabilmente legata alla saldatura della già citata impostazione di area
cattolica con le posizioni del femminismo differenzialista (movimento
estremamente complesso, interessante e portatore di trasformazione socio-simbolica
in molti contesti, ma non sempre di impatto efficace e lineare, come dimostra
il presente compromesso, che ancora una volta si può dire “ideologico”) – si
dovrà tornare a porre l’accento sulla differenza come diseguaglianza.
A
quel punto: è sufficiente eliminare le diseguaglianze sociali (ancorché passo
lunghissimo e spinta idealmente e materialmente necessaria) per tornare alla
buona differenza, radicata che sia ora nelle determinazioni biologiche, ora in
quelle del genere?
Basta
“educare al rispetto” dell’autentica differenza per ottenere questo, secondo
una pratica che, come si è visto, mantiene intatte la dicotomia sessuale o di
genere, rischiando di mantenere inalterate anche le dicotomie di cui sopra?
4.
Il femminile e il
maschile nel linguaggio (ma non al plurale)
Nella
sezione dedicata a “Il femminile e il maschile nel linguaggio”, si riconosce
fin da subito questo principio: “Un’altra forma di violenza simbolica è
cancellare la differenza in nome di una presunta uguaglianza che è in realtà un
adeguamento al modello maschile” (p. 7). Ne consegue che
nella
pratica didattica si suggerisce quindi di verificare l’adeguatezza del
linguaggio usato nei libri di testo di tutte le discipline non solo per quanto
riguarda la presenza di eventuali stereotipi del maschile e del femminile, ma
anche per quanto concerne l’uso del genere grammaticale, che costituisce uno
strumento fondamentale per la rappresentazione della donna nel linguaggio. (p.
8)
Uno
degli argomenti di fondo di questa sezione, infatti, è che un uso “femminile” o
“neutro” di termini precedentemente declinati al maschile contravviene spesso alle
regole grammaticali già date, impedendo così una comunicazione efficace.
Come
per il valore del rispetto, si punta il dito su un’autentica emergenza, rispetto,
stavolta, alla literacy delle classi
‘reali’. Dal punto di vista linguistico, inoltre, le argomentazioni sono
solide, come nel caso dell’unico esempio direttamente citato, in nota (Cecilia
Robustelli, “Genere, grammatica e grammatiche”, in La differenza insegna, a cura di Maria Serena Sapegno, Roma,
Carocci, 2014, pp. 61-74). Citazione che, al tempo stesso, è sintomo di un
lavoro accademico molto più ampio, che coinvolge vari gruppi di ricerca negli
atenei italiani e porta a esiti talvolta analoghi, talvolta discordanti
rispetto a quelli indicati.
In
effetti, l’intenzione di ribadire la bontà e la necessità della grammatica
italiana (un impianto normativo che non esclude la violenza simbolica di cui
sopra, anzi ne consente l’attuazione) non sembra costituire una posizione di
per sé soddisfacente, in particolare se corroborata da argomentazioni come
questa: “Come è noto, infatti, la lingua italiana possiede solo il genere
grammaticale maschile e quello femminile e non ha il genere neutro. Qualsiasi
buona grammatica italiana ne chiarisce l’uso, la funzione e la distribuzione, e
ad essa rimandiamo” (p. 8).
Certamente
vero, ma il peso della lingua latina (dotata di genere neutro) è ancora
rintracciabile nella lingua italiana, pur non costituendosi come genere a sé
stante, e altre lingue di cui si prevede l’apprendimento a scuola presentano il
genere neutro o configurazioni diversi dei generi grammaticali del maschile e
del femminile rispetto alla lingua italiana. Queste riflessioni valgono a
livello meta-linguistico, come segno di un’abilità che completa e rafforza la
correttezza grammaticale e la comunicatività nell’uso della lingua. Le
competenze di tipo meta-linguistico aiutano a delineare la storicità delle regole
grammaticali, variabili nel tempo e nello spazio (ma non arbitrariamente e non
a prescindere dai contesti pragmatici, come del resto si sottolinea
correttamente nelle Linee Guida). Aiutano inoltre a riflettere sui fenomeni di
discriminazione linguistica che la normatività linguistica continua a produrre,
ad esempio con l’adozione del maschile plurale universale (ogni volta che la
concordanza sia richiesta con almeno un elemento di genere maschile).
5.
Conclusioni (aperte)
L’analisi
fin qui condotta sottolinea come le Linee Guida siano un testo fortemente
contraddittorio, basato talvolta su argomentazioni incoerenti, e che produce un
effetto di deriva rispetto alle proprie finalità pragmatiche e programmatiche. Se
ne auspica dunque un ripensamento integrale, atto a evitare il rischio che il
documento presti il fianco a quelle interpretazioni, univoche e unilaterali,
che si concentrano esclusivamente sulle parti del testo più chiaramente
definite.
Essendo
caratterizzato da certa perentorietà, il bando di “ideologia” e “teoria gender”
dalle scuole di ogni ordine e grado sembra essere una di queste parti. Tuttavia,
si tratta di un’indicazione basata su una definizione scientificamente
inconsistente (“ideologia gender”) e confusa con un’altra etichetta (“teoria
gender”) sulla quale invece il dibattito accademico e intellettuale resta rigoroso,
aperto e vivace.
Il
rifiuto di “ideologia” e “teoria gender”, inoltre, deriva, in modo
incongruente, da assunti che partono proprio dalle riflessioni sul genere/gender: non se ne può fare a meno, del
resto, se i principi-cardine delle Linee Guide sono l’educazione al rispetto e
la prevenzione della violenza di genere, nonché di tutte le forme di
discriminazioni.
In
questo senso, includendo quindi una qualche definizione di genere/gender, vanno tutte le indicazioni
meritorie, e preziose, contenute nelle Linee Guida, delle quali si può dare qui
un altro esempio:
Bambini
e bambine, uomini e donne sono tra loro diversi e ciò rende l’esperienza umana
molto ricca. Tuttavia molto spesso dalle bambine e dalle ragazze si aspettano
comportamenti e inclinazioni che corrispondono a idee e immagini molto
normative: devono essere gentili e sensibili, amare i giochi tranquilli, le
faccende sentimentali, ed essere ossessionate dalla apparenza fisica e dallo
sguardo degli altri. Secondo uno stereotipo diffuso non amerebbero le scienze e
la matematica, lo sport e la competizione. Altrettanto rigide e opprimenti le
aspettative sui bambini e sui ragazzi: non devono avere timori né sensibilità o
dolcezza, è indispensabile che amino il calcio e ogni tipo di gara, devono
accettare giochi violenti e sapersi difendere. L’imperativo “sii uomo” spesso
non ha lasciato alcuno spazio ai gesti, alle parole e alle responsabilità della
cura: maschio che non solo “non deve chiedere mai”, ma neppure ascoltare e
rispondere alla domanda di relazione. (p. 6)
Tutto
ciò che si propone in questo paragrafo, e che ha attinenza diretta con
l’esperienza quotidiana dei discenti, non può essere avanzato se non attraverso
un’analisi del gender quale quella
fornita dai Gender Studies/Studi di genere, (terzo termine tra “ideologia” e
“teoria”, che non viene quasi mai chiamato in causa, forse perché costringe a
riflessioni più articolate di un semplice binarismo pro/no-gender).
Attinenza
alle analisi dei Gender Studies/Studi di genere, avrebbe anche l’espressione
“differenza di genere”, termine che, del resto, ha vita difficile in un testo
dove la differenza è intesa prevalentemente in senso essenzialista: mancando
un’articolazione discorsiva con l’espressione “differenza sessuale” e con tutte
le altre dicotomie citate nelle Linee Guida, il proposito di decostruzione e di
lotta alle diseguaglianze di genere trova un’attuazione monca, non essendo
affrontato nella sua complessità.
Oltre
alla già citata epistemologia decostruzionista, un ragionamento basato sulla
decostruzione sulle “differenze” è stato proposto (e largamente accettato dal
dibattito accademico e intellettuale, almeno fuori d’Italia) dai Queer Studies.
Parzialmente e in debito di ulteriori precisazioni, obiezioni e riformulazioni,
il punto di vista queer è stato adottato
anche in questa lettura. Non si vede, infatti, perché tale produzione
intellettuale non debba essere tenuta in debito conto (mentre si dà credito, in
vario modo, al pensiero sociale cattolico, al femminismo differenzialista e
all’antropologia relazionale: tradizioni di pensiero importantissime, ma che,
nella prassi, dovrebbero avere uno statuto altrettanto “parziale” nelle
direttive ministeriali).
A
meno che non si delinei, come spesso accade, una confusione semantica anche tra
gender e queer: una confusione di questo tipo spiega come nell’opposizione
al gender serpeggi spesso, tra le
altre motivazioni, il timore che una determinata educazione di genere possa
“omosessualizzare” i discenti. Timore che, oltre a essere scientificamente del
tutto infondato, manifesta una certa tendenza omo-, lesbo- e transfobica: si
continua, infatti a fantasticare su tutti quegli orientamenti sessuali che non
sono normativi e binari, ritenendoli capaci di manipolare – ideologicamente – chi non ne sia
naturalmente convinto (o anche, seguendo le varie declinazioni di questa
fantasia, di penetrare chi non è consenziente, di contagiare e patologizzare
chi altrimenti godrebbe di salute, etc.).
Qualora
ci si attenesse alla lettera di queste Linee Guida, dove omofobia, lesbofobia,
o transfobia non sono nemmeno nominate, tale preoccupazione potrebbe essere
rinsaldata, anziché riconosciuta, esplorata, criticata, superata.
Se
ci si propone di “educare al rispetto”, questi ultimi passaggi (dal
riconoscimento al superamento delle discriminazioni, nell’orizzonte di una
promozione attiva e trasformativa della complessità sociale) sembrano essere
teoricamente ineludibili, restando, nel nostro Paese, di estrema rilevanza e
urgente attualità.
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